L’ambientazione è una strada assolata in mezzo al nulla. In lontananza una macchina, poco più di un puntolino, e una nube di polvere attorno. La macchina si fa sempre più ravvicinata. Sfreccia solitaria su quella lingua di catrame arida e screpolata, è una decappottabile guidata da un uomo belloccio, sulla trentina, con occhiali da sole e vestiario Armani, gemelli e Rolex d’oro e un enorme anello, anch’esso d’oro e decisamente di dubbio gusto, stile pappone. Ha i capelli corti scompigliati costantemente dal vento e la musica a palla, Make me Bad dei Korn. Sta cantandola a squarciagola quando all’improvviso la macchina rallenta di colpo fino a fermarsi del tutto. Ma che cazzo!?, esclama l’uomo, poi guarda la spia della benzina , rossa e brillante. Dannazione!, sbraita, e in un sol movimento spegne il lettore cd e apre la portiera della macchina, il cantante dei Korn ha appena terminato la canzone sussurrando in modo inquietante la frase che le fa da titolo. Scende dalla macchina, impreca ancora e si guarda intorno, smarrito. Senza lo sbattere violento dell’aria contro di lui, comincia a sudare vistosamente. Tenta di togliersi la costosissima giacca in fretta e furia, con rabbia, rimanendovi intrappolato per qualche secondo, dimenandosi con movimenti spastici, sembrando ammanettato da dietro, davvero ridicolo. Sta per buttare la giacca a terra quando sente in lontananza un cigolio. È il rumore dell’insegna di un distributore di benzina. Prende una tanica dal bagagliaio, e lo richiude assieme alla portiera rimasta ancora aperta. Si incammina sotto il sole cocente con la giacca in spalla e la tanica, ha ampie macchie di sudore sotto le ascelle. Arrivato al distributore, non trova nessuno, con la faccia incazzata apre il portafoglio di pelle marrone, nelle varie tasche trasparenti che sfoglia si intravedono di sfuggita la sua patente, la foto di una biondona completamente nuda e la tessera di un centro estetico. Trovata la carta di credito, fa per infilarla nel lettore del distributore di benzina. La macchina la risucchia voracemente appena sfiora l’entrata, strappandogliela quasi dalle dita. Dopo pochi secondi, realizza che è fottuto. La benzina non esce, e la tessera non viene risputata fuori. Colpisce con un pugno il distributore urlando di rabbia. Poi apparentemente si tranquillizza, fa un respiro profondo e prende il telefonino dalla tasca della giacca. Non c’è campo. Decide allora di proseguire a piedi lungo la strada finché non si ritrova ad un bivio. A sinistra un cartello semiarrugginito, da cui si intravedono le parole centrali della città, HELL. Dall’altro lato, un cartello perfettamente leggibile, praticamente nuovo di pacca. C’è scritto DOLLHOUSE. Finalmente sorride. Dice: “Ma dai!? Ho trovato la città di Barbie e Ken!“.
E va da quella parte ridacchiando tra sé, dando del drogato a chi ha battezzato in quel modo ridicolo la città. Una volta arrivato, entra in un locale. Apre il portafoglio. Ha quindici dollari con sé, e li guarda sconsolato. Ordina il pasto più economico e gli viene rifilata una sbobba dall’aspetto orribile, una zuppa color acqua sporca e in cui galleggiano frammenti verdastri di non si sa cosa.
Fa per lamentarsi, ma chi l’ha servito è già lontano. Assaggia un paio di cucchiaiate, poi la allontana da sé, disgustato. Arriva il gestore del locale, un omaccione, che gli fa:”Qualche problema, ragazzo?” Intimorito dalla stazza, dice che d’un tratto gli è passata la fame. Fa per pagare, ma non trova più il portafoglio. Lui cerca di spiegarglielo, con calma, davvero, ci prova sul serio, ma il tizio non la finisce più per pochi dollari di merda di conto e allora non ci vede più. Gli molla un pugno in faccia che lo fa cadere a terra, fa per assestargli un calcio quando viene colpito a sua volta da una sedia stretta ben salda nelle mani di un altro avventore del locale. Adesso è in ginocchio, vede tutto sfuocato e sente i suoni attutiti e deformati, ma una seconda sediata risolve il problema. Si risveglia verso sera sul pavimento di una prigione. Tenta faticosamente di alzarsi, non ce la fa, sbatte le palpebre e in quell’istante si ritrova davanti al viso, comparso dal nulla, un grosso ratto che lo osserva. Allora scatta in piedi e urla come una donnicciola. Subito dopo tenta di darsi un contegno, guarda fuori dalle sbarre ma non vede nessuno, né guardie né prigionieri. D’un tratto comincia ad annusare l’aria con un’espressione disgustata, si gira e vede sulla brandina in basso un detenuto seduto rannicchiato, lo sguardo fisso, perso nel vuoto. Lo osserva meglio. Ha la barba incolta, i suoi vestiti e lui stesso sono lerci, una grossa macchia di piscio sui pantaloni e sul letto. Gli sembra di vedere dei piccoli insetti sciamare nella barba e nei capelli, ma in penombra non si capisce.
Gli fa:”Non parli molto, Eh?”
“Dubito che le risponderà”, esordisce l’avvocato in tacchi alti e minigonna. Quando era arrivata? Si fa aprire la porta da una delle due guardie che la accompagnano. È molto bella, lunghi capelli castani ondulati e occhi neri come un segreto oscuro, i vestiti le aderiscono come se le fossero stati colati addosso. Una guardia scorta fuori il prigioniero sporco e rachitico, o meglio, lo trascina via afferrandolo da dietro la schiena. L’avvocato li segue con scalpiccio veloce e sempre più lontano. Finito quel bizzarro interludio, pretende, è un suo diritto, per Dio!, di poter fare una telefonata. La guardia rimasta appare comprensiva ma gli suggerisce di aspettare l’indomani, per non causare inutili preoccupazioni data l’ora. Decide di accettare il consiglio, e si sistema sulla brandina in alto. La mattina dopo, viene svegliato da una guardia, dicendogli che il suo avvocato d’ufficio deve parlare con lui. La riconosce immediatamente e sorride. La guardia li lascia soli, chiusi dentro la cella. Lui fissa la guardia che si allontana, interdetto, non è un esperto ma non gli sembra la normale procedura. Lei gli chiede come si chiama e perché è senza documenti. Lui le dice di chiamarsi Michael Ennis e le racconta della sua disavventura nel locale. Lei l’ascolta distrattamente. Le chiede cosa deve fare per uscire da quella situazione schifosa. In tutta risposta, lei si avvinghia a Michael e lo spoglia con frenesia animale, Michael ha un sorriso che non finisce più. Lo sbatte per terra. Gli conficca le lunghe unghie nella schiena fino a fare uscire il sangue ma Michael continua a gradire. Ad un certo punto, però, l’amplesso stesso comincia a diventare doloroso, le chiede con una risatina sofferente di rallentare un po’, lei gli è sopra e continua il frenetico movimento di pelvi come se lui non avesse fiatato, anzi aumentando il ritmo. Ad un certo punto si alza da lui, non è ancora venuto ma a lei non importa. Si riveste rapida ed esce, lasciandolo così. Lui si riveste incredulo, con l’ego ferito. Stringe la mascella. Esclama:”Puttana”, con voce rabbiosa e un po’ rotta. Non nota l’assurdità di un semplice avvocato d’ufficio provvisto di copia della chiave della sua cella. Guarda fuori dalla cella e non c’è nessuno. Si rimette a letto, sconfitto. Pomeriggio. Il clangore della chiave nella serratura lo risveglia. Entra nella cella lo sceriffo in persona , un uomo sulla cinquantina, grasso, con i capelli e la barba ingrigiti. Gli dice che è libero di andare, che non hanno i soldi per permettersi di mantenere uno scroccone attaccabrighe come lui. Michael mentre lo sceriffo dice tutto questo ha la testa china e i pugni serrati. Va a ritirare gli effetti personali confiscati, scarpe, gemelli, rolex. Gli chiedono se c’è tutto. No, gemelli e anello non ci sono. Lui dice di sì. Esce. Chiede a dei passanti dove può prendere un autobus per lasciare la città, ma probabilmente per via del suo aspetto sfatto e sconvolto nessuno gli dà attenzione. Entra in un locale e chiede cosa può pagarsi con il suo rolex d’oro. Gli danno un panino dall’aspetto vissuto, con sopra una leggera patina verde. Non chiede che c’è dentro, non si lamenta dell’aspetto, si limita a mangiarlo avidamente. Esce,vaga per ore senza meta finché sviene. Viene raccolto da una ragazza. Diciannove anni, pallida, una darkettona con anfibi, jeans neri e una maglietta nera con su scritto Trapnest a grandi lettere. Rinviene in un garage pieno di sculture di metallo. La ragazza, Jennifer, gli dà un brodino e comincia a parlargli di sé, di come sia l’unica in città a vestire in quel modo e ad ascoltare gothic metal, della sua passione per le sculture in metallo, di aver scoperto per caso di essere stata adottata e di temere che i suoi genitori siano stati uccisi dalla brava gente di DOLLHOUSE. Michael le dice, senza offesa, che forse è un tantino paranoica. Lei risponde criptica:”Questa notte vieni con me in un posto, ti farò vedere la sporcizia sotto il tappeto di DOLLHOUSE”. Lui accetta. Si incamminano verso i limiti della città, fino a ritrovarsi ai piedi di una collina. Michael dice:
“Allora questa sporcizia?”
“Ci sei accanto.”
“Non capisco.”
“Questa collina duecento anni fa non c’era, ho controllato nell’archivio storico cittadino le mappe topografiche.” Silenzio. Lei prosegue:”Ricordo fin da bambina gente di fuori città, gente come te che, per una serie di coincidenze, si inimicava cittadini e poliziotti. Tutti con la stessa identica storia, macchina senza benzina e tutto. Poi sparivano nel nulla, e nessuno ne parlava.” Michael impallidì. Jennifer continua il suo racconto, sembra in stato di trance:”Verso i dodici anni, cominciarono gli incubi. Sognavo questa collina, questa collina dove noi bambini non potevamo giocare. Sognavo i morti che urlavano da dentro la collina e chiedevano vendetta” Qui Michael sorrise, come a dire “è matta”. Jennifer ritorna lucida, con uno sguardo cattivo, e dice: ”C’è un modo per far tacere le voci dei morti”, e brandisce un coltello. Lottano, Michael cerca di disarmarla e le fa un buco in pancia. Muore in pochi minuti. Lui cerca di farla rinvenire. “È morta, imbecille”. È la voce dello sceriffo, con lui si è radunata tutta la città attorno alla collina. “Lei voleva diventare come noi, per far cessare gli incubi” prosegue, ”è stato un errore permetterle di vivere”.
Michael ha il terrore dipinto in volto, la sua voce è poco più di un sussurro: ”Cos’è questo posto?”
“La risposta è semplice” continua lo sceriffo, “è l’inferno in terra dove finite voi bambolotti del cazzo”. Stacco temporale. Tre mesi dopo. Michael è vivo. Lo costringono a bruciare in un altoforno le decine di morti che, vediamo in un flashback, per paura del Grande Fratello che ti spia dallo spazio, hanno evitato di agglomerare alla collina da almeno dieci anni. Ha uno sguardo da pazzo. Ha un flash dello sceriffo”…la risposta è semplice…” Allora parla con voce rauca: ”Anche questa risposta è semplice”, e si butta nell’altoforno. Brucia, ma non muore. Esce dall’altoforno, le fiamme lo avvolgono completamente, sente nella testa le voci di migliaia di morti. Ogni cosa che tocca, istantaneamente brucia, esce dall’edificio mentre crolla ed ha un ultimo flash, di quando da bambino si divertiva a fondere i suoi soldatini di plastica con l’accendino. Guarda verso il centro abitato, e sul suo volto in fiamme appare un sorriso maligno.
😳🚬❤️❗️
1 ora fa
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